VISIONI 2023 – TOP 10

10. L’ULTIMA NOTTE DI AMORE di Andrea Di Stefano

Mi ha fatto prendere un colpo.

Basterebbe l’intera sequenza in autostrada, snodo cruciale narrativo di questa storia che racconta l’ultima notte di servizio del poliziotto Franco Amore prima della pensione, per applaudire a scena aperta il film di Di Stefano. Magistrale, per come è stata pensata, per come è girata, per come sa mettere la tensione sopra un filo tiratissimo e sottilissimo, per l’ansia che cresce, per le atmosfere e le dinamiche che echeggiano del grande cinema di Michael Mann o del più recente di Denis Villeneuve. Da lasciare senza fiato. Il film è costruito intorno a questo fatto, ed è un’opera di genere, un po’ noir un po’ polar francese, dura, robusta, muscolosa. Architettura sontuosa per un film appassionante e adrenalinico.

9. IL SOL DELL’AVVENIRE di Nanni Moretti

Se cambi una parola, una sola parola, cambi il senso di tutto il film.

È tornato il Nanni Moretti dei primi film. Siamo nel suo cinema, quello che lo ha reso grande e unico, e non dalle parti di quella roba piatta, televisiva, inconsistente di Tre piani. Qua ci sono le sue ossessioni, i suoi tabù, i suoi temi ricorrenti. Ma c’è anche un Moretti che si mette in discussione, che guarda indietro per cercare la luce di un sole tra le ombre della vita, della società, della politica e del mondo, il suo e quello di chi gli gravita intorno, famiglia e cinema. Non ha il passo di una volta, Moretti, non ha quello spirito frizzante, spesso non tiene il palco, e allora fa tenerezza, perché sembra inciampare nel tentativo di rifare le sue trovate geniali, le sue gag, le sue scene, che a volte risultano più astratte rispetto al passato e meno aderenti ad una verosimiglianza da cui il cinema non può prescindere. Il sol dell’avvenire è un film stratificato, intelligente da un punto di vista narrativo, che interseca il piano del reale con quello della finzione di un set cinematografico e con quello, ulteriore, onirico, di film pensati e sognati dallo stesso Giovanni, cioè Moretti, il protagonista. E proprio nella storia d’amore immaginata tra i due ragazzi, il film raggiunge i suoi momenti emotivi e qualitativi più alti: cantando l’amore quindi, anche quando si vorrebbe parlare di politica, di guerra, di questioni personali. Anzi, nonostante tutto questo; al di là, al di sopra.

8. L’INNOCENTE di Louis Garrel

Sono fatta così, ho una libido ipersviluppata, che ci posso fare?

Vero colpo di fulmine di inizio anno. Tutto quello che puoi chiedere al cinema in poco meno di due ore: intrattenimento, risate, bellezza artistica, commozione e dramma. Nell’opera di Garrel i generi si mescolano, l’eccesso e la passione trovano sfogo nella commedia (e si ride di gusto!), ma anche contenimento nel dramma, nelle lacrime. Il poliziesco un po’ retrò definisce i connotati stilistici del film e illumina un dispositivo di scrittura precisissimo e raffinato, che sa sorprendere, che mischia le carte in tavola, che incastra moti intimi e personali in dinamiche narrative di genere, elegantemente cinematografiche.

7. THE QUIET GIRL di Colm Bairéad

Fai tesoro delle parole, ricordatelo sempre. Troppe persone non hanno taciuto quando era il momento di farlo e hanno pagato un prezzo molto alto.

The quiet girl è la bellissima sorpresa dell’anno. Una storia semplice. Siamo in Irlanda, anni ’80. Cáit è una bambina di nove anni, vive in campagna con un padre indifferente, con sorelle che la giudicano e non la considerano e una mamma che aspetta un altro figlio e sembra non avere tempo per lei. Perciò è spesso sola, sporca, trasandata. Con l’avvento della stagione estiva viene mandata da una cugina della madre, che vive insieme al marito, in una fattoria. L’ambiente che la accoglie è pulito e rassicurante, la donna, Eibhlín, è buona e premurosa; il marito Seán, soprattutto all’inizio, è taciturno ma gradevole. L’opera di Colm Bairéad è un racconto di relazioni, di legami, di amori sottintesi. La protagonista cresce con il progredire della storia, e cambia: gli spigoli del suo carattere introverso e taciturno che la puntellano e la rinchiudono all’angolo, mano a mano si smussano, e aumentano i metri d’aria intorno a lei, gli spazi, in una visione d’insieme sempre più libera e ampia.
Sono i piccoli gesti, attraversati e vivificati da solitudine e dolore, i brevi dialoghi, gli sguardi sempre più liberi e diretti, e quel “comunicare tutto, ma tacendo” che il volto angelico e profondissimo della giovane attrice Catherine Clinch esprime con perfetto equilibrio tra realismo e lirismo, a creare un film stratificato e umanissimo, e a esprimere, per poetico paradosso, tutto il valore dei sentimenti e la potenza assoluta di un cinema semplice e disarmante.  recensione completa      

6. TÁR di Todd Field

 Il tempo è essenziale. Il tempo è l’elemento fondamentale dell’interpretazione.

Tár racconta la storia di una delle più grandi compositrici viventi, tale Lydia Tár, nonché prima donna di sempre a dirigere l’orchestra della Filarmonica di Berlino. Fin dall’incipit, con le inquadrature in dettaglio su una chat privata di un cellulare e un’intervista corposa tenuta davanti ad un pubblico di appassionati, siamo ritenuti a credere alla verità di questo personaggio: ma Lydia Tár non esiste nella realtà del mondo in cui viviamo, è un personaggio completamente inventato dalla mente e dalla penna di Todd Field. Siamo di fronte ad uno dei miracoli del cinema, cioè quello di creare vita vera all’interno di un contesto di pura finzione, quello di trasformare l’inesistente in esistente, l’irreale in reale. Tár è la storia vera di una finzione cinematografica. È il biopic di un personaggio inventato. Va da sé che il film di Todd Field è un Cinema di pura scrittura che esalta il potere persuasivo e affabulatorio di quest’Arte visiva capace di dare la vita e creare esseri umani così concreti, vividi, sanguigni. recensione completa

5. FOGLIE AL VENTO di Aki Kaurismäki

– Ma adesso?
– Andiamo al cinema?

Sospeso e melodico, poetico e sognante, una tempesta ferma, un frastuono quieto. Il cinema di Kaurismaki non è mai stato così essenziale e puro. Così cinefilo. Gli occhi velati di tristezza, persi in orizzonti lontani, l’alcol come lenitivo, la radio come passatempo: due solitudini si incontrano, e l’una diventa custode dell’altra. Una storia d’amore singolare, costruita su poche parole e lunghi sguardi, su veloci momenti insieme e lunghe attese solitarie e notturne, in casa o fuori da un cinema; costruita su un’ironia fugace e tragedie improvvise. Due solitudini che nella cura reciproca si aggiustano, si bilanciano. E che, infine, si allontanano dall’inquadratura, insieme, l’una affianco dell’altra: passeggiano sempre più distanti dal nostro sguardo, come nel celebre finale di Tempi moderni. Vorremo trattenerli ancora un po’, passare più tempo con loro. Ma accettiamo che vadano, a vivere la vita. Consapevoli che la loro storia rimarrà nel nostro cuore, e che non smetteremo mai di abitare il cinema di Aki Kaurismäki.

4. LEILA E I SUOI FRATELLI di Saeed Roustaee

Ti è stato insegnato cosa pensare e non come pensare.

Leila si sente isolata e sola, e deve gestire i suoi quattro fratelli in balia della vita, del mondo, del destino avverso, della noia e della pigrizia; un padre che non si preoccupa del loro presente e futuro ma solo della sua reputazione; e una madre sottomessa al marito. Roustaee, regista iraniano classe 1989, riesce nel sapiente bilanciamento tra scrittura e messa in scena che sa di prodigio artistico: il cinema del reale declinato nei drammi familiari, nella condanna della disoccupazione, nelle fughe all’estero, si innesta in una struttura drammaturgica squisitamente cinematografica. Così in un piano sequenza ad esaltarsi sono sia la potenza della realtà sia quella del cinema; un primo piano fa emergere le prove mastodontiche degli attori, così bravi a recitare da saper improvvisare con naturalezza la vita; la commedia riscopre echi della grande commedia italiana di Monicelli e Comencini, dove la risata è quella di tutti i giorni e spesso è solo un istante di luce, un breve diversivo; nella pesantezza del vivere quotidiano, l’apatia logorante, il trascinamento del peso di una vita mediocre, e nel districarsi continuo tra i problemi alla ricerca di una soluzione, entriamo allo stesso tempo dentro il cinema umanista di Ettore Scola e dentro una realtà così pregnante, vera, che possiamo toccare e vedere ogni giorno.     

3. AS BESTAS di Rodrigo Sorogoyen 

Per consentire loro di vivere in libertà, gli ailotadores immobilizzano le ‘bestas‘ con il loro corpo per rasarle e marchiarle.

As Bestas è grande cinema d’autore. Dietro la macchina da presa troviamo il talento cristallino di Rodrigo Sorogoyen, regista spagnolo che non sta sbagliando un colpo e che sta diventando sempre più ingombrante nella scena del cinema mondiale. Questo suo ultimo lavoro è un film di violenza trattenuta e progressiva, tutta interiore, che monta e gonfia lentamente, e quando tenta di sprigionarsi, di esplicitarsi, lo fa lontano, in modo foderato, compresso. Al centro della vicenda c’è una coppia di contadini francesi che si è trasferita in un remoto paesino spagnolo: ma non sono ben voluti dalle persone del luogo, e in particolar modo dai vicini di casa, perché i due coniugi si oppongono alla costruzione di pale eoliche sul territorio che porterebbero ingenti somme di denaro per le famiglie del posto. As Bestas fa respirare le atmosfere cupe, inospitali e refrattarie del capolavoro di John Sturges, Giorno maledetto; richiama alla mente Il vento fa il suo giro di Giorgio Diritti; si lega in modo singolare e sorprendente ad un altro bellissimo film uscito quest’anno, Il male non esiste di Ryūsuke Hamaguchi. Sorogoyen, tra piani sequenza e primi piani, dirige il solito film di realismo crudo e lucido, innervato e drammatizzato dal linguaggio cinematografico che intreccia psicologie complesse scavando nei meandri e negli anfratti dell’animo dei personaggi. Il tutto è sì significato e senso, ma anche mezzo e forma.

2. GLI SPIRITI DELL’ISOLA di Martin McDonagh

Non lascerò l’asino fuori quando sono triste.

Pádraic (il gentile) e Colm (l’artista) rompono l’amicizia di una vita. Smettono di parlarsi. È l’innesco di uno dei film più strampalati e originali dell’anno, dove commedia e tragedia si rincorrono, si sovrappongono, la risata si fa mano a mano sempre più beffarda, nella costruzione di un teatro dell’assurdo che da sempre è il Cinema di Martin McDonagh, ma che qui trova la sua massima espressione in termini narrativi: una sola location e pochi attori che definiscono lo spazio e intessono la trama degli eventi.
L’essere umano è un’isola, vive nella sua e della sua solitudine, è spesso indifferente alle guerre che esplodono intorno a lui, che riguardano anche le sue stesse relazioni. Spesso i conflitti si scatenano anche nella sua isola, nel suo cuore: la guerra è interiore e minaccia le sue certezze, lo fa dubitare di se stesso, di chi è veramente, di come lo vede la gente, lo distrugge lasciando devastazione e macerie. E lo trasforma. Ne esce con una mano monca, con il cuore in ombra. Ma alla fine de Gli spiriti dell’isola Pádraic e Colm si incontrano sulla spiaggia. “Grazie di prenderti cura del mio cane”, dice Colm all’amico. “Quando vuoi”, gli risponde l’altro per poi allontanarsi, mentre Colm intona un motivetto musicale con la bocca. Gentilezza e Arte, oltre la guerra e le barriere del tempo, alla fine di tutto: i loro lasciti e quelli del film. recensione completa

1. OPPENHEIMER di Christopher Nolan

È questione di vita o morte. Ma io posso fare questo miracolo.

Oppenheimer è un’opera potente che ti arriva addosso con una tale forza d’urto da scuotere le viscere, quelle anatomiche per via di un sonoro e un visivo debordanti e configgenti, ma anche quelle morali: non si prova solo la paura concreta di poter saltare in aria, ma anche un vero e proprio terrore verso l’umanità e la sua latente attrazione a distruggere e distruggersi; cosa è stata capace di concepire e di fare, cosa può ancora essere, quale potere può gestire con una sapienza e una saggezza che non le possono appartenere. Il boato della distruzione è silenzioso e magnifico. Con Oppenheimer Christopher Nolan continua il percorso avviato con Dunkirk (2017) e portato avanti con Tenet (2020). “Non leggere la musica, sentila”: è ancora l’esaltazione del cinema nella sua essenza, di un cinema sensoriale, percepito e vissuto sulla pelle e sulla retina degli occhi nei suoi principi linguistici fondativi, originari e puri: un montaggio frenetico, ma accuratissimo, che fa vibrare l’immagine, stimola l’intelletto; una fotografia a colori densa e sporca, un bianco nero espressivo e avvolgente; e l’inquadratura, la cellula base del linguaggio cinematografico, che qua perde ogni confine, quasi a scomparire e sfumare intorno ai personaggi: lo schermo IMAX, così vasto, sembra tuttavia non riuscire a contenere loro, né tantomeno l’azione che mettono in scena, e pare proprio uno di quei paradossi della fisica quantistica dei quali si sente parlare nel film: non c’è azione in Oppenheimer, c’è l’attesa dell’azione; la dinamicità è trattenuta, come i neutroni, che si accendono solo quando vengono bombardati, innescando una reazione a catena capace di liberare una quantità di energia spropositata. E lo spettacolo, incandescente e smisurato, si propaga come quando un sasso cade nello stagno, ed è romanticamente spaventoso ma sublime che non puoi non decantarlo: è lirico Nolan, ancora più di quanto lo fosse già stato in Interstellar di fronte alle vastità e al mistero dello Spazio profondo.
Un’opera imprescindibile. recensione completa

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